Giovedì, Dicembre 26, 2024
Saperi, competenze, pratiche e narrazioni nel sociale
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Associazione di promozione sociale
di Susanna Ronconi, pubblicato da Zapruder, n. 50/2019
Cinque anni fa, 2014. Come ogni anno in occasione del 25 aprile si aprono i cancelli dell’ex carcere Le Nuove, a Torino, luogo di detenzione e morte di molti partigiani e poi carcere di molti e molte, fino al 2003. Un’associazione che raccoglie storie e testimonianze cura gli spazi, li rende agibili, li attraversa con spettacoli, voci, memoria. Ora è un monumento di archeologia penitenziaria, esempio mirabile di panoptico ottocentesco, celle deserte, alcune sono spogli musei di quotidianità deprivata, la gente che non sa si aggira con la stessa meraviglia che suscitano le segrete di un castello medievale.
Ma noi, là, abbiamo speso le nostre vite, prima che la moderna edilizia penitenziaria portasse recluse e reclusi ai confini della città, nel nuovo carcere delle Vallette. Decido che quest’anno varcherò il portone verde di corso Vittorio, da cui tanti anni fa e dopo tanti anni il carcere mi aveva alla fine sputato fuori, prima per i brandelli di tempo del lavoro esterno e della semilibertà, e poi per la libertà ritrovata. Sentimenti contrastanti, sapevo che mi avrebbe fatto male. O forse non male, piuttosto che mi avrebbe straniato. Mi era accaduto qualche anno prima, con le ferriere: le ricordavo vive di operai e lotte, le ho ritrovate scheletro del tempo, teatro immenso, come lo spettro di una cattedrale, la bocca dell’alto forno spalancata in un urlo muto. E attori che raccontano le generazioni di classe operaia che lì hanno lasciato vite e polmoni, luci, musica sparata, il senso di una fine. Accanto a me, vecchi operai con le mogli e le famiglie, a commentare, ricordare, spiegare ai nipoti. Quella strana sensazione di un tempo veloce, troppo, che ci fa, insieme, attori vivi di una realtà ancora così vicina (solo il secolo scorso…) e spettatori di un palcoscenico che non è più nostro. E le difficili ricuciture della memoria che si strappano, ci provano, a tenere insieme e a dare senso, ma sembrano fatte del cotone da imbastitura, che si sfila e si spezza al lieve premere di un dito. Avevo, allora, alle ferriere, sentito un’intima vicinanza con i vecchi operai, loro cancellati dalla retorica della “fine della classe operaia” e dalla, molto più concreta, avanzata del post-tutto; io, cancellata dalla sconfitta della lotta armata e dall’ergastolo bianco della parola, quella pena senza norme e senza fine, che nega storia e voce, comminata in nome di una narrazione dominate, di una retorica vendicativa. Ne ero uscita straniata, questa è la parola. A cavallo tra i secoli, con un senso di perdita senza appello ma, anche, una curiosità per il futuro, comunque, e una tenacia, dentro. Con sempre più chiaro perché, anni prima, avevo intitolato la mia storia “Autobiografia di due vite”. Perché c’era una cesura, coperta da una fitta rete di fili da imbastitura, indomiti ma deboli.
E allora eccomi, non si entra dal portone verde, ma dal lato di via Boggio, via che fatico a ribattezzare Falcone e Borsellino, come succede ai vecchi di paese che cocciutamente chiamano le strade con soprannomi sconosciuti alla toponomastica. Proprio lì, sull’angolo tra il corso e via Boggio c’era il vecchio minorile, poi diventato le nostre celle, quelle della detenzione politica, dopo l’uscita dagli speciali. Due tigli fanno ancora capolino oltre il muro, piccolo spazio di ghiaia consumato dai nostri passi in cerchio. Giorni, mesi, anni di passi in cerchio. Già al primo sguardo tutto mi balza davanti, torna dall’abisso del tempo e si fa, qui, presente, lancinante. Ma ancora non è nulla, nulla rispetto all’impatto che avrò nella sezione femminile, i tre piani di ballatoi chiusi da una grande gabbia, fino al soffitto, tirata su dopo che la morte di chi si era gettata dal terzo piano, sfinita dalle sbarre e dalla vita, aveva fatto correre ai ripari. Ripari, nuove gabbie, nuove chiusure: la morte, qui dentro, non fa mai pensare a quanta libertà servirebbe per evitarla, fa solo chiudere nuovi cancelli. È questa, ho pensato, l’anima profonda dell’istituzione totale. Il femminile mi ha lasciato uno stupore infantile, quello che si prova quando, ormai adulti, si ritorna in un luogo dove andavamo da bambini: oggi ci sembra piccolo, angusto, senza magia, allora era magari la nostra più bella avventura. A me la sezione femminile allora era sembrata piccolissima, buia, angosciante. La ricordavo, invece, una piazza, un palazzo ingabbiato, un vociare, un via vai di donne e bambini piccoli, una parrucchiera, una stireria… E ho pensato «Come abbiamo fatto? Come ho fatto?». A tenere, a lottare, a pensare, ad amare. A vivere, comunque. Una bambina alle mie spalle chiede alla madre «Ma mamma, vivevano qua, con questo gabbione?». E la madre, forse per non allarmarla o forse davvero perché lo pensa: «Ma no, lo hanno messo adesso, per il teatro». Io taccio.
Comincia il giro della rotonda, delle sezioni, delle celle. Straniamento, ancora. Per la prima volta vedo la sezione maschile che aveva rinchiuso per tanti anni Sergio [Sergio Segio, “comandante Sirio”, mio compagno di vita e di lotta], luogo sconosciuto fino a quel giorno del 2014. Mondi separati, lontani. Colloqui di cinquanta minuti alla settimana, la forza, la tenacia, l’amore, lo strazio. Ma la sua cella, buia in un corridoio sepolto nell’ombra e nell’umido, assolutamente uguale a quello dei partigiani mandati a morte, mi era rimasta sconosciuta. Si arriva davanti a una lapide di marmo. Ricorda Rosetta Sisca e Maria Grazia Casazza, agenti morte durante l’incendio che il 3 giugno 1989 ha investito la sezione femminile dell’allora nuovo carcere delle Vallette. La guida ne parla dopo aver ricordato altri due agenti uccisi dai militanti della lotta armata. Ci sono due nomi, ma le donne morte sono undici. Nove erano ragazze, donne detenute: Ivana Buzzegoli, Rosa Capogreco, Paola Cravero, Lauretta Dentico, Lidia De Simone, Morsula Dragutinovic, Editta Hrovat, Beatrice Palla, Radica Traikovic (Vesna). Nessuna lapide per loro. Mi cresce dentro una ribellione, all’inizio sorda e silenziosa. Dopo pochi secondi una frase: «Sono morte per liberare le detenute, le detenute si sono infatti tutte salvate». Non taccio. Dietro di me un gruppo di trenta cittadini mi ascolta dire che sono morte nove detenute, e che è un insulto alla loro memoria dimenticarle e anzi farlo con una menzogna. Lui mi dice se sono sicura di quello che dico, io gli dico che c’ero. Silenzio dei cittadini attorno a me, imbarazzo. Ho un nodo in gola e lo stomaco chiuso. Esco di corsa. Esco dal carcere ricordato per i partigiani innocenti, gli ebrei innocenti, gli agenti innocenti, e immemore delle migliaia di vite non innocenti che lì hanno vissuto, sofferto, espiato, lottato. E che lì, a volte, sono morte. Un museo del carcere non dovrebbe parlare di loro? Non dovrebbe raccontare la detenzione cos’è? Non dovrebbe lasciare in chi esce dal portone, a fine visita, una domanda, un dubbio, un sentimento che non si riduca al rancore? Lo scrivo, pochi giorni dopo, e poi lo dico vis a vis, in un colloquio teso, al responsabile del museo: «Mi permetta, in chiusura, un’osservazione, che nasce non solo dalla mia esperienza diretta di allora, ma anche dal mio impegno di oggi, come attivista dei diritti umani e come operatrice sociale e culturale: il vostro lavoro è prezioso, custodire e soprattutto rendere accessibile la memoria della Resistenza alle generazioni più giovani, in un tempo in cui i protagonisti si fanno ormai rari, è importante. E tuttavia devo dire che dal giro alle Nuove se ne esce con una mancanza: non ci sono i detenuti e le detenute. Se non nell’emozione che al pubblico resta nell’immaginare cosa potrebbe voler dire stare chiusi anni in quegli spazi orribili. Ma, mi permetta, è davvero poco, troppo poco, rispetto alla necessità – a mio avviso urgente – di promuovere nella popolazione tutta una cultura del diritto e dei diritti, della non discriminazione, una cultura costituzionale contro il sentimento di vendetta – se non purtroppo spesso di forca – contro chi ha commesso un reato. Il carcere è fatto dalle guardie e dai ladri, e qui i ladri non ci sono. […] Dove sono quelle e quelli che, colpevoli, hanno lottato per sopravvivere, per vivere meglio, per il rispetto e per cambiare leggi ingiuste? Dove sono le loro voci? Sono le mie domande. Ma ciò che conta ora è il 3 giugno prossimo. Fate una operazione di verità. Grazie». E pubblico questa lettera. Non sono più tornata alle Nuove, non so se quella lapide è cambiata, né se le guide hanno aggiunto un paragrafo, un piccolo paragrafo, alla loro storia.
Eppure. Eppure le donne morte nell’incendio del 3 giugno sono, in termini di vite umane, il dramma più grande del carcere dopo la riforma del 1975. Ricordare oppure, al contrario, dimenticare, in casi come questo è un gesto politico. E noi – io e alcune mie compagne – abbiamo sempre voluto lavorare, da quel 1989 ad oggi, per ricordare. E, al contrario di tanti altri, lo abbiamo sempre fatto ricordando undici donne, non nove. Qualcuno ne ricorda solo due. È una differenza affilata come un coltello: parla di vite a perdere, di disprezzo, di irrilevanza. E contro l’irrilevanza, diceva bene Hannah Arendt, possiamo restituire a chi ne è vittima la sua propria storia, e con essa la sua dignità di essere umano.
Ricordare narrando è un gesto politico contro l’irrilevanza. Oggi è molto chiara in me questa lotta narrativa all’irrilevanza, ne faccio un linguaggio del mio presente, nel lavoro sociale e nell’attivismo. Allora, nel 1989, era stata solo un’intuizione, quasi un’urgenza.
Io, Liviana e Sonia [Liviana Tosi e Sonia Benedetti, militanti di Prima Linea] eravamo allora detenute lì, nelle celle di fronte e a fianco di quelle delle donne che sono morte. Quella notte eravamo in permesso, ventiquattr’ore. Solo ventiquattr’ore. Eravamo a casa di Mimmo Calopresti, allora giovane videomaker, per pensare insieme a un video, a una storia. Noi a raccontare, lui a inventarsi un film. Avevamo tirato tardi, la sera, qualche bicchiere, e parlare, parlare, parlare. Un breve sonno. Lui doveva alzarsi presto, la mattina. Aveva acceso il telegiornale delle sette. Piazza Tienanmen, un ragazzo con le mani alzate davanti a un carrarmato. E poi un incendio: carcere femminile di Torino, undici donne morte. Ci chiama con il viso teso, «alzatevi», dice, «è successa una cosa terribile». Ci precipitiamo sul televisore mentre passano di nuovo le immagini della piazza, pensiamo che quello lo abbia sconvolto... no, non è questo, e di nuovo la notizia del carcere. Le immagini ci serrano la gola. Sono le nostre celle, è il nostro braccio. Le riprese mostrano lingue di fumo nero stampate sui muri, uscite dalle finestre delle celle. Anche dalle nostre, e sbarre di ferro accartocciate. Non si fanno ancora i nomi delle donne morte. Telefoniamo ai nostri avvocati, diciamo loro di venirci a trovare subito, nel pomeriggio. Noi, rientriamo immediatamente. Le donne sono state trasferite alle Nuove, il vecchio carcere che avevamo da poco lasciato per la nuova struttura. Pochi mesi prima. Torniamo anche noi al vecchio carcere, quello dei nostri ultimi anni. Confusione, panico, nulla funziona, celle vuote e disadorne, abbandono. Occhi gonfi, urla, sedativi a fiumi, tensione come lama di coltello, svenimenti, occhi persi. E rabbia, e odio. Le donne sono disperate. Nove di noi sono morte, due agenti sono rimaste soffocate tentando di aprire le celle, mentre per un tempo che deve essere sembrato infinito nessuno interveniva, nessuno si muoveva. Una catasta di materassi – centinaia – era stata accumulata all’aperto, sotto le nostre finestre, coperta da teli di plastica. Lì, invece che nei magazzini. Lì invece che più lontano, lì per non rovinare l’effetto della serra appena inaugurata. È bastata una scintilla, un mozzicone, tutto è diventato fuoco e fumo, un fumo denso a centinaia di gradi di calore. Ci facciamo raccontare tutto, tra una camomilla e una carezza: dal primo grido delle donne all’arrivo dei pompieri sono passati quarantacinque minuti, dicono. Non c’erano le chiavi delle celle, né quelle delle rotonde, non funzionavano i bocchettoni dell’acqua, è scattato il piano antisommossa che blocca ogni movimento... Racconti come da un’allucinazione, ma quella è la nostra vita. Bisogna fare qualcosa, agire, incanalare il dolore, mettere a frutto i ricordi, impedire la disperazione. Il fare, e fare insieme, è una cosa che sappiamo, e nel giro di quarantotto ore, con l’aiuto dell’avvocata Bianca Guidetti Serra, fondiamo – con tutte le donne – un’associazione, l’“Associazione 3 giugno”, che avrà lo scopo di testimoniare e di sorvegliare che si faccia un processo e che sia un processo giusto: sulle responsabilità, sui ritardi nei soccorsi, su un carcere che non ha un piano antincendio. Su un carcere che sputa sulla vita di chi vi è rinchiuso. I racconti delle donne si affastellano. Proponiamo loro di scrivere, scrivere tutto: il dolore, la rabbia, ma anche ogni informazione utile, chi ha detto cosa, gli orari, gli avvenimenti, il susseguirsi dei fatti. Tutto andrà al magistrato. Tutte chiedono di essere sentite dal pubblico ministero, e tutte scrivono, una fucina di memoria dolente ma lucida, per reggere al dolore, per avere giustizia. Un lavoro che dura due anni, la pubblicazione di un libro con queste testimonianze, un convegno che riesco, con altri, a organizzare nel quartiere delle Vallette, militanza fatta di permessi premio dal carcere, affannati e intensi, rubati agli affetti famigliari. Il processo si concluderà con sei assoluzioni: non è stato nessuno. A me rimane un album con le fotografie delle ragazze, tutti i miei libri anneriti – che ancora oggi, liberi, fanno bella mostra di sé nella mia libreria, il più nero di tutti è Sorvegliare e punire di Michel Foucault – e uno scatolone, dove miracolosamente la mia gatta Dixi – conquistata e tenuta con me in cella dopo lotte e proteste e tenacia – con la sua cucciolata appena nata è scampata alla morte: l’avevo affidata per quella notte a Concetta, che me li accudiva. La sua cella, per un gioco di correnti d’aria, ha mantenuto una temperatura sopportabile e non è stata saturata dal fumo. Lei è stata lì, asciugamano bagnato in faccia, accoccolata sopra lo scatolone dei gattini, fino alla fine dell’incubo.
Narrare, avere una voce pubblica, organizzare un convegno, agitare il tema dei diritti, denunciare, lavorare per un processo giusto, creare reti per “liberarsi della necessità del carcere”, come recitava un bello slogan degli anni ’80: quei giorni, quei mesi sono stati per me non solo il dovere della memoria e della giustizia, ma anche un’uscita dal buio della sconfitta. Come si esce dall’eccesso? Come si esce dalla rivoluzione delle armi? Come si torna a lottare? Quali altre armi ci sono, che non uccidano, ma che sappiano parlare il linguaggio della resistenza e, insieme, dell’alternativa allo stato presente delle cose? Quel 3 giugno è stato l’inizio di un’esplorazione avventurosa che ancora oggi continua come viaggio impervio ma tenace, mettere la testa fuori dallo straniamento “tra due vite”, smettere di declinare la sconfitta e farsi, di nuovo, soggetto del presente. Mi era già accaduto, proprio in quei mesi, con i ragazzi sieropositivi rinchiusi alle Vallette: anche loro mi indicavano una possibilità. Erano radicali, mettevano i loro corpi in gioco, sciopero dei farmaci e del cibo, un azzardo enorme per chi aveva l’AIDS, allora si moriva in fretta, non era come oggi. E la loro lotta era, come era la nostra contro la morte delle nostre compagne, una lotta fin dentro i diritti primi, fondanti, dell’esistenza umana, contro un carcere della morte. La loro era, allora, la morte per una malattia terribile, una morte che non poteva, non doveva avvenire dietro le sbarre. Erano radicali, ma anche dialoganti: parlavano con tutti, incontravano tutti, aprivano tavoli per spingere, contrattare, provocare e ragionare. Ho dato loro la voce che potevo allora dare, i canali che avevo per una voce pubblica. E anche con loro ho intravvisto un presente.
Gli anni trascorrono, quelle ragazze e quelle donne, annidate con forza nei nostri ricordi e nei nostri cuori, continuano a parlare. I loro racconti sono diventati prima uno spettacolo teatrale, grazie a una compagnia dei centri sociali, più di dieci anni fa, e testi che il web rende pubblici per chiunque voglia sapere [leggi i racconti]. Ora, a trent’anni, diventa di nuovo un libro, e uno spettacolo di voci narranti e musica e nuovi incontri [Si tratta dello spettacolo Lascia la porta aperta, prodotto dall’associazione Aurea per l’Associazione SaperePlurale]. Dove in ballo non c’è solo quella notte, ma tutte le altre notti che sono seguite e che ancora seguono in migliaia di celle. Le notti della pena come vendetta, del rancore sociale amplificato dagli imprenditori della paura, celle affollate dal populismo penale che ha bisogno di sempre nuovi nemici, e dal balbettio di chi non sa vedere le radici delle povertà, delle esclusioni e pesca nel codice penale le sue inutili ricette. Notti che mai più – ed è un impegno – devono vedere la luce dell’alba oscurata dalla morte.
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